La narrazione ci aiuta a costruire significati
La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per narrarla.
(G.G. Màrquez)
Tradizionalmente i fatti sono considerati, per la loro concretezza e tangibilità, più “sicuri” e stabili rispetto alle parole… Se ci si ferma a riflettere però si comprende che la “parola” (quindi la narrazione) è un ponte che mette in collegamento la realtà alla mente e che media l’attribuzione di significati.
Ciò assume maggior chiarezza se pensiamo a come sia pressoché improbabile una descrizione oggettiva del mondo. Consideriamo ad esempio un evento sociale oggettivo: una donna viene derubata del portafoglio in autobus. La vittima racconta che lei è una persona piuttosto prudente e che si guarda sempre intorno … se per esempio è una persona che ha un vissuto di vittimismo e di passività può aggiungere alla sua storia: che capitano sempre tutte a lei, che è sfortunata …, la stessa cosa potrebbe essere raccontata con toni meno tragici sottolineando il fatto che l’autobus era particolarmente affollato e quindi fatti del genere è più facile che succedano…
Il fatto accaduto è lo stesso ma la sua “narrazione” muta da un individuo ad un altro in quanto in ogni versione c’è inevitabilmente l’aspetto soggettivo, emotivo, psicologico da cui ognuno di noi non può esimersi…
J. Bruner (1987, 1991), ha studiato questo fenomeno mettendo in relazione il rapporto tra esperienza ed espressione della stessa; l’autore sostiene che quando “raccontiamo” qualcosa avviene uno strano fenomeno per cui un significato prevale in modo arbitrario sul flusso della nostra memoria, mettendo in primo piano una causa e trascurandone un’altra.
Questa sorta di divieto di accesso prediletto alla definizione oggettiva della realtà potrebbe generare sentimenti di insicurezza e di frustrazione… ma riflettendoci attentamente se così non fosse le nostre esistenze diventerebbero trascrizioni settoriali l’una dell’altra, le nostre reazioni, emozioni, sentimenti sarebbero uniformate ai medesimi avvenimenti.
Il frutto della assidua descrizione degli eventi della vita diventa una biografia caratterizzata da una storia principale, ovvero da un tema centrale che è il fulcro della propria vita mentale e che può rappresentare la chiave della sofferenza di un individuo. In quest’ultimo caso, il tema dominante diviene un nodo che limita il proseguimento della storia (la propria vita) e la progettazione del futuro. Talvolta il riproporsi di una storia tossica nella biografia viene attribuito al caso o alla sfortuna, ma ciò spesso è frutto dei limiti imposti a se stessi e agli altri dalla narrazione statica di cui ci si fa portatori. Ad esempio, se una persona ha subìto un abuso e accetta la narrazione, più o meno esplicita, secondo cui essa ha contribuito a causare l’aggressione, tale storia rinarrata interiormente la spingerà a considerarsi colpevole e ciò potrebbe portarla ad alimentare atteggiamenti che autorizzino gli altri ad agire nuovi abusi.
Infatti, la narrazione, influenzando la percezione di sé, modifica atteggiamenti e comportamenti e può influenzare negativamente il futuro. Si tratta di un processo secondo il quale la teoria guida la pratica attraverso uno stretto rapporto che le narrazioni intrecciano con l’identità delle persone. Quest’ultima rappresenta un’immagine di se stessi prodotta interiormente, ma che si consolida e viene riconosciuta nell’interazione con altri, durante la quale avviene una continua produzione di narrazioni cooperative che è alla base della cosiddetta costruzione narrativa dell’identità (G. Mantovani 1999).
Cosa si intende per pensiero logico e pensiero narrativo
La mente umana, per nostra fortuna non funziona unicamente sui dati reali e presenti, ma ha una capacità sopraffina: quella di pensare e ed elaborare anche su dati che non sono attuali in quel dato momento nel percettivo.
Secondo J. Piaget (1965), infatti, Il pensiero si basa sulla capacità rappresentativa, un’abilità che si sviluppa intorno al 18° mese di vita e che consente di costruire un’immagine mentale di oggetti e situazioni.
L’occasione di liberarsi dal “piano della realtà” – o in altre parole analizzare elementi non necessariamente presenti nell’istante in cui li si esaminano – è il fondamento sia del pensiero logico-paradigmatico sia del pensiero narrativo.
Differenze:
Il pensiero logico-paradigmatico consente di costruire concetti e categorie generali, di riconoscere nessi causali tra gli eventi, ma non è utilizzato per la risoluzione di problemi inerenti la sfera sociale.
Accanto al pensiero logico paradigmatico troviamo il pensiero narrativo che abbraccia una logica legata alle azioni umane (desideri, emozioni, affetti e credenze) e alle interazioni tra individui (regole e motivazioni sociali), questo tipo di pensiero assolve ad una funzione molto importante: da senso e significato a quei contesti percepiti, dal soggetto come inspiegabili e incomprensibili, consentendo l’ attribuzione e costruzione di significato alle varie esperienze.
Bruner (1969,1996) spiega tale processo evidenziando ben nove proprietà intrinseche al pensiero narrativo:
Le nove proprietà della narrazione
1.La sequenzialità: i fatti che vengono narrati sono organizzati attraverso una sequenza di tipo spazio-temporale.
2.La particolarità: il contenuto delle storie è un episodio preciso.
3.L’intenzionalità: è legata all’’interesse per le intenzioni umane che guidano le azioni attraverso scopi, opinioni e credenze.
4.L’opacità referenziale: il narrante, solitamente, descrive “rappresentazioni di eventi” piuttosto che fatti oggettivi. Questo perché in una narrazione le storie non devono essere necessariamente vere, ma verosimile, cioè possibili. Infatti il concetto di opacità referenziale indica che la rappresentazione ha valore, non in quanto si riferisce ad un evento concretamente esistente, ma in quanto rappresentazione dello stesso.
5.La componibilità ermeneutica: consiste nel legame esistente tra le varie parti della narrazione ed il tutto, dal quale dipende l’interpretazione fornita.
6.La violazione della canonicità: Nella narrazione c’è una fase in cui le cose si snodano secondo le attese; questa viene chiamata la dimensione “canonica” della narrazione. Quando, nella narrazione, si verificano fatti inaspettati si inverte la linearità. La narrazione, quindi, affronta al tempo stesso, la normalità e l’eccezionalità. Ogni persona cerca di “normalizzare” ciò che non è ritenuto socialmente condiviso mediante la “narrazione delle sue ragioni” o delle sue intenzioni che danno un valore e un significato all’eccezionale.
7. La composizione pentadica: in ogni storia esistono almeno cinque elementi: attore, azione, scopo, scena, strumento. Se questi elementi sono in armonia tra loro, la narrazione procede in modo regolare.
8.L’incertezza: la narrazione si snoda su un piano di realtà dubbio; in quanto si colloca a metà strada tra realtà e rappresentazione, quindi gli interlocutori possono “contrattare” i significati da attribuire alla narrazione.
9.L’appartenenza ad un genere: ogni narrazione può essere inserita in un suo genere o stile che tende a rimanere costante.
Costruzione del se’
La narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità. Quest’ultima si modella e si struttura mediante il narrarsi agli altri, grazie a un processo di negoziazione di significati. L’identità narrativa, emerge tutte le volte che ci presentiamo e ci raccontiamo agli altri e a noi stessi, proprio perché lo facciamo in un modo unico e caratterizzante. La costruzione dei significati è un processo sociale che nasce e si sviluppa all’interno di un contesto storicamente e culturalmente determinato. Il soggetto quando racconta la propria vita, attua, al tempo stesso,un processo si assimilazione e distinzione dagli altri. Ricoeur (1993), a tale proposito, sostiene che quando una persona definisce se stessa, analizza due aspetti diversi dell’identità, l’identità “idem” e l’identità “ipse”.
L’identità idem appare nel racconto quando il soggetto delimita il proprio sé attraverso schemi sociali condivisi. In altre parole il soggetto opera un processo di normalizzazione della propria vita, “raccontando” il solito tram tram quotidiano, uniformandola a quella degli altri.
L’identità ipse, al contrario, si costruisce mediante i racconti che racchiudono elementi anomali rispetto ai canoni: eventi critici; ad esempio dei rischi che la persona ha corso o un’avventura voluta. Sono precisamente queste “deviazioni”, secondo l’autore, che trasmettono al soggetto la sensazione che quella vita che lui ha vissuto è “unicamente sua” e di nessun altro. Quindi il soggetto afferma la propria individualità attraverso l’esperienza della trasgressione al tradizionale/conforme.
Il ruolo della narrazione nella psicoterapia:
Ma come si colloca e che importanza ha il concetto di narrazione nell’ambito del lavoro psicoterapeutico? L’attenzione che lo psicologo clinico e lo psicoterapeuta da alla storia portata dal paziente non si concentra unicamente sul contenuto ma soprattutto sul modo con cui il paziente la racconta, all’importanza della o delle “scene narrative” scelte. Il paziente spesso non è cosciente della sua “preferenza” di una “modalità narrativa”rispetto ad un’altra. Il clinico, può attivare nel paziente un’attenzione al suo modo di raccontarsi, se cioè ordina gli eventi in annales, se in cronache o già in forma di storia.
Narrandosi per annales, le persone fanno un enumerazione di fatti disposti in ordine cronologico, senza rapporti di causalità tra di loro e senza dipendenza e progettualità. La cronaca è una narrazione in cui i fatti seguono un criterio di causalità, ma non valutabile perché già dato e aprioristico: “solo con la storia si giunge ad una narrazione sistematica che prevede anche un’esposizione critica e che etimologicamente rimanda non solo alla informazione ma anche all’indagine. Con la storia si completa un percorso e si da spazio all’interpretazione personale e critica degli eventi, gli oggetti dell’attenzione non possono essere contemplati come a se stanti ma acquistano significato solo se possono essere contestualizzati e analizzati” (Montesarchio 1998).
La “competenza”di raccontarsi per mezzo di una storia può essere considerata il risultato del lavoro psicoterapeutico “cioè passaggio dagli annales alla storia dove la competenza non è limitata alla Storia solo come opportunità ricostruttiva di quanto è accaduto, ma proprio come modello di lettura dei fenomeni incorniciati in un divenire dialettico. Dove l’abilità sta’ nell’utilizzare strumenti con i quali si possono costruire previsioni, pensare obiettivi e produrre cambiamenti” (G. Montesarchio 1998).
Polster, (1984), prende in esame la psicoterapia come un processo estetico-artistico. Il clinico, al pari dello scrittore, usa i medesimi parametri selettivi e costruttivi nel generare una storia, con l’obiettivo di aiutare il paziente a “ri-scrivere” la sua biografia. In tal modo è come se il clinico e il paziente diventassero i co-narratori della nuova storia. La cultura in cui viviamo è intrisa di sistemi di credenze, valori, principi, ecc; questi non sono considerati UNICAMENTE come sistemi di eventi reali, ma anche “storie” e “racconti” che gli esseri umani si narrano per sostanziare, dare senso e interpretare la loro esperienza. Vista in quest’ottica, anche la “patologia” può essere vista come una particolare struttura narrativa, e la terapia un intervento su di essa. Il clinico nel contesto psicoterapeutico lavora insieme al paziente sulle “realtà narrative” che quest’ultimo porta attraverso i suoi racconti.
Al terapeuta non interessa se quelle realtà siano “veramente” accadute oppure no; ciò che a lui interessa è la ricostruzione che il cliente fa di ciò che è avvenuto. Nel momento in cui si racconta qualcosa che appartiene al proprio passato, infatti, non lo si rivive, lo si ricostruisce.
“All’autore, pur sempre a qualcuno rivolgendosi, preme il gusto del ricordare non per fatti quanto piuttosto per significati tratti dall’esperienza e quindi per riflessioni” (Demetrio, 1995, pp.72). Il qui ed ora della del lavoro psicoterapeutico diventa il luogo e il tempo fertile all’interno del quale iniziare a vivere esperienze nuove, nuovi modi di sentire, versioni diverse della propria esistenza e, quindi, nuovi racconti.
Il clinico, infatti, può facilitare nel paziente una sorta di “narrazione creativa”: a quest’ultimo viene data la possibilità di riaprire un copione, una storia (la sua vita) che si ripete sistematicamente nello stesso modo; può “riconsiderare” il finale, perché gli viene offerta l’opportunità di togliere la parola fine. Ovviamente, non rientra nel ruolo dello psicoterapeuta proporre una storia diversa, egli può limitarsi a dare degli stimoli, a mettere in “figura” qualcosa che è sullo sfondo. Infine, potremo affermare che le persone scelgono di iniziare un lavoro psicoterapeutico, proprio perché le “loro storie” non sono più in grado di dare un senso accettabile alle proprie esperienze.
A cura della Dott.ssa Raffella Grassi
Bibliografia:
- Bruner J., (1969), Trad. It. Il pensiero. Strategie e categorie, Armando, Roma
- Bruner J., (1987), Life is narrative, Social Reaserch, 54, 11-32.
- Bruner J., (1991), La costruzione narrativa della realtà. In Ammaniti M., Stern D., (a cura di) Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Bari.
- Bruner J., (1996), Trad it. La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano
- Demetrio, D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.
- Mantovani G., (1999), La costruzione narrativa dell’identità. In Psicologia Contemporanea, 151, 18-25.
- Montesarchio G. (1998), (a cura di ), Colloquio da manuale, Giuffrè editore, Milano
- Montesarchio G. (1998), Il colloquio: il setting, in Montesarcho G. (1998) (a cura di), Colloquio da manuale, Giuffrè editore, Milano
- Piaget J., (1965), Trad it. La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Boringhieri, Torino.
- Polster Erving , Ogni vita merita un romanzo. Quando raccontarsi è terapia, Casa Editrice Astrolabio, 1988
- Ricoeur P., Sé come un altro, Milano, Jaka Book, 1993, p. 231.
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